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Storie di vita

Storie di vita

Monira (Afghanistan)

Con Monira non è stato difficile parlare; l’abbiamo incontrata, aveva voglia di raccontare la sua vita, al di fuori di ciò che le ha chiesto l’esercito italiano per salvarla da Kabul, di ciò che ha dichiarato alla Questura di Perugia e alla commissione Territoriale della Prefettura. Monira vuole raccontare il suo dolore.

“Voglio parlare della mia vita in Afghanistan, che è differente dalla vita in altri paesi, specialmente per le donne. Per le donne nel nostro paese la vita è impossibile, anche in passato. Ho lasciato il mio paese due volte. La prima volta non per i Talebani, ma per la dominazione russa. Mio padre ha deciso di lasciare l’Afghanistan e di rifugiarsi in Iran, paese vicino e simile al nostro, dove sono rimasta per 20 anni. In Iran eravamo rifugiati, tutta la vita siamo stati rifugiati. Ho perso la mia vita tre volte, e tre volte ho ricominciato da zero.

In Iran sono andata a scuola per 5 anni, cambiando città nello stesso paese poi non è stato più possibile andare a scuola. Mio padre ha deciso di cambiare città e con mia madre facevamo i tappeti. Nella seconda città dove sono stata per tre anni, non sono andata a scuola. Il giorno facevo i tappeti e la notte piangevo con mia madre perché non andavo a scuola.

Dopo tre anni siamo tornati nella prima città, da Mashad siamo tornati a Khashan, perché mio padre aveva perso il lavoro. Tornando nella prima città ho potuto riprendere gli studi. La legge iraniana diceva che non potevo andare nella classe con i più piccoli, ma mia madre è andata a parlare per me e mia sorella per farci tornare a scuola. Mia mamma ha imparato a leggere e a scrivere sui nostri libri, spesso studiando di notte. Dopo tre anni mio padre decide che mi dovevo sposare. Potevo scegliere se sposare un uomo scelto tra i parenti di mia madre o tra i parenti di mio padre. Potevo scegliere tra un figlio del cugino di mio padre o tra i parenti di mia madre. Volevo studiare, ma non potevo scegliere. Dobbiamo sposarci molto giovani, a 17 anni. Mi sono sposata con un parente di mia madre e questo ha creato problemi con la famiglia di mio padre: una situazione terribile. Mio marito era molto buono; dopo un anno brutto, tutto è andato bene. Sono nati i miei figli, mio figlio M. e mia figlia H. Dopo sei anni ho chiesto a mio marito di poter tornare a studiare.

Dopo sette anni di matrimonio, quando H. aveva un anno e M. aveva sei anni, mio marito mi ha permesso di studiare. Siamo ancora in Iran, sono tornata a scuola per tre anni, ed ho finito di studiare con due bambini. In Iran i rifugiati non possono andare all’università, perché non hanno i documenti necessari. Avrei dovuto anche pagare tanto e per questi motivi non sono andata. Dopo dodici anni di matrimonio ho perso mio marito. Difficile vivere con due figli da sola. Per un anno la mia vita è stata una notte completa. Ero depressa ed usavo medicine per dormire. Non uscivo mai. Pensavo che tutto fosse finito. In Iran la vita è difficile soprattutto per le donne come me. Non avevo casa, non avevo nulla, non lavoravo. Facevo i tappeti, ma i soldi per la famiglia non bastavano. Qualche volta venivo aiutata dai miei genitori. Dopo un anno siamo tornati a casa di mio padre, in accordo con i parenti di mio marito. Mio padre si sentiva responsabile di quanto successo e ci ha voluto aiutare.

Intanto in Afghanistan i talebani erano stati sconfitti e siamo rientrati in Afghanistan. La nostra vita è cambiata: per un anno non ho studiato, poi tutti studiavano e solo mio padre lavorava. Ho lavorato in un negozio di abbigliamento, insieme a due sorelle ed un fratello, poi ho lavorato in un asilo; dopo due anni ho potuto riprendere l’università. Vista la mia età sono dovuta andare in una università privata. Di giorno e le prime ore del pomeriggio lavoravo e la sera dalle 17 alle 20:30 andavo all’università. Per quattro anni mi sono svegliata alle quattro del mattino e tornavo a casa alle dieci di sera. Studiavo Giurisprudenza e mia madre mi aiutava con i figli. Ho potuto studiare proprio con l’aiuto di mia madre. Mia madre teneva anche i bambini di mia sorella: quattro bambini perché anche mia sorella studiava. Dopo quattro anni ho finito l’università e sono diventata direttrice della scuola dove lavoravo. Ero molto stimata dai genitori, dai loro bambini e dagli altri insegnanti. Finita l’università, per tre mesi ho trovato lavoro in un progetto per aiutare le donne afghane a trovare lavoro come procuratore. Aiutavo le donne a lavorare nel settore della giustizia, aiutavo le donne a lavorare in importanti ruoli in ambito legale.

 Abbiamo aiutato 260 donne in un anno, venivano preparate da me e da mia sorella e dopo avrebbero potuto lavorare. Era un’organizzazione internazionale americana. Dopo un anno il corso finiva, facevano un esame e firmavano un contratto per lavorare in posti pubblici. In 120 hanno superato l’esame e sono state assunte in Kabul ed in altre 34 province. Tre o quattro province non partecipavano al progetto perché ancora occupate dai talebani. Poi ho lavorato come procuratore ed ho continuato a fare dei master. Ora ho ottenuto insieme ai miei figli lo status di rifugiato, quando andrò in un S.A.I. voglio tornare all’università.

 In Afghanistan ho studiato la notte ed ho fatto un master. Avevo due lavori. Dopo tre anni che insegnavo sono arrivati i talebani, che hanno distrutto tutto.

Un anno prima che arrivassero i talebani, il nostro lavoro era molto pericoloso. Alcune persone iniziavano a lavorare con i talebani. Indagavo su persone che lavoravano per i talebani. Parlavo con i collaborazionisti dei talebani. Venivano arrestati ed io andavo a parlarci. Indagavo e facevo i dossier per i giudici. I talebani hanno iniziato ad uccidere giudici, poliziotti e procuratori. Facevano continui attentati per uccidere giudici, poliziotti e procuratori. Mettevano macchine con delle bombe ovunque, per farle esplodere negli uffici. Avevamo tutti una scorta. Eravamo in dieci persone, ci prendevano e ci portavano al lavoro, poi per non farci morire tutti insieme proseguivamo da soli. Tre colleghi sono stati uccisi vicino alla mia casa. Ogni giorno mi svegliavo, controllavo la mia casa ed andavo al lavoro.

La situazione è divenuta impossibile. Mettevano bombe ovunque, nei bus, negli ospedali, ovunque. Mio figlio frequentava l’università; quando M. arrivava tardi dalla sua facoltà di ingegneria, lo chiamavo di continuo al telefono. Quando i talebani sono arrivati a Kabul, ad agosto del 2021, dopo una settimana sono arrivata in Italia. I talebani era un mese che provavano ad entrare in Kabul. I colleghi parlavano di Kabul presa dai talebani, e temevano per la loro vita e la mia. Dovevamo essere i primi ad essere attaccati. I talebani sono arrivati di domenica; mi hanno chiamato alle sei del mattino: fra due giorni i talebani arriveranno in città. Tutti gli stranieri erano in aeroporto per partire. Non avevo soldi, ho preso anelli ed orecchini ed altre cose d’oro e li ho venduti. Tutti i negozianti hanno chiuso le loro attività, e preso i loro soldi. Ho venduto il mio oro, ho preso i soldi e sono scappata. Mia madre mi ha telefonato piangendo dicendomi di tornare a casa perché stavano arrivando i talebani. Vicino alla mia casa ho visto persone diverse, che non avevo mai visto, non posso dimenticare.

 Ho incontrato una macchina della polizia. I poliziotti si cambiavano i vestiti per non farsi riconoscere e poi hanno abbandonato la macchina. Dopo una settimana che sono arrivati i talebani, molti giudici e poliziotti volevano lasciare l’Afghanistan.

Il marito di mia sorella aveva lavorato con i militari italiani ed ha chiesto di portarci in salvo in Italia. L’esercito italiano ha fatto i controlli e ci hanno consegnato un codice per raggiungere l’aeroporto di Kabul ed arrivare in Italia. Ho fatto vedere il codice in aeroporto ed ero lì con M. ed H. Insieme a noi c’erano anche mia sorella, suo marito e la figlia. Mia sorella era incinta. Alle quattro del pomeriggio abbiamo lasciato la casa, dopo tre ore siamo riusciti ad arrivare a piedi all’aeroporto. Di solito ci si impiega un’ora ma c’era tanta gente. Abbiamo camminato tre ore. Siamo entrati in aeroporto alle sei del mattino. Altre due notti siamo rimasti in aeroporto. Alle sette del mattino siamo entrati in aereo e partiti per il Kuwait.

 Siamo arrivati in Italia, una notte siamo rimasti in aeroporto e sette giorni sotto le tende della protezione civile e poi, dopo due settimane, la prefettura di Perugia ci ha fatto accogliere dalla Diocesi di Perugia.”

M. ha potuto proseguire i suoi studi di ingegneria, vincendo una borsa di studio all’Università di Torino; H. deve frequentare il terzo anno del liceo scientifico “Galileo Galilei”. Il nucleo familiare di Monira. ha avuto il riconoscimento dello status di rifugiato ed ora insieme alla figlia H. stanno aspettando di essere inserite in un S.A.I., possibilmente in Piemonte per ricongiungersi al figlio M.